Liquidità, leggerezza (dell’essere), velocità, post-verità, molteplicità, spettacolo, superficie sono alcune delle parole chiavi della cultura attuale, parole che esprimono concetti che riguardano non solo la musica e l’arte ma la società degli anni 2000.
Siamo in presenza di una liquefazione delle categorie tradizionali. La società liquida porta inevitabilmente a una situazione fluida e miscelata del mondo musicale. Nell’epoca trans-storica della post-verità non vi sono certezze assolute, ma mezze verità, poche sicurezze e molti dubbi.
Già Guy Debord, nel 1967 agli albori dell’era televisiva, nel suo La società dello spettacolo, preannunciava, nelle forme di una leggerezza diffusa, la sostituzione dei concetti di realtà e razionalità con quelli di apparenza e popolarità, tanto che tutto il dibattito successivo, relativo al Postmodern, non fu che la conferma di uno spostamento di valori e atteggiamenti, come attestato dal libro del Premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa, La civiltà dello spettacolo (non a caso con quasi lo stesso titolo del libro di Debord).
Il concetto di superficie sostituisce quello di profondità, il primo fa riferimento a un atteggiamento pragmatico e funzionale, mentre il secondo è speculativo, metafora di una concavità dell’essere dove posizionare la ‘verità interiore’. La leggerezza dell’essere appartiene al nostro tempo, librandolo dalla schiavitù delle ideologie, delle filosofie idealistiche, dei cascami romantici e dal peso della storia.
Per Herbert Spencer l’eterogeneità è sinonimo di equilibrio, perché solo attraverso continui mutamenti si trova il bilanciamento. La varietà è molto difforme e in veloce cambiamento, di essa solo una parte può essere compresa, quella che è possibile analizzare dall’angolatura prescelta.
Vi è una creatività diffusa, estesa e leggera. Pare si voglia sfuggire alla ‘fatica del pensiero’, come diceva Hegel, allo ‘sforzo’ dello scrivere e al duro lavoro dell’artigiano, così si cade nell’omologazione che è la peggiore nemica della creatività. Ascoltando le musiche di molti giovani compositori, quarantenni o trentenni o perfino più giovani, ci si accorge di una circolazione di idee e fatti talmente diversificata, energica, veloce e fin da subito plurale da scardinare il classico concetto di unitarietà dell’opera.
Si passa da una prospettiva individualistica, retaggio dell’idealistica posizione del genio, ancora oggi presente anche se massificata a una creatività distribuita, frazionata in settori: creatività inventiva, innovativa, espressiva, produttiva, funzionale ossia una creatività polisemica.
I confini del paradigma che definisce l’arte si sono vaporizzati, tutti possono fare arte col personal computer; si abusa del multimediale senza averne le conoscenze; in generale le competenze si sono abbassate; l’ascolto è passivo e superficiale e i grandi maestri dove sono? Non certo nelle aule accademiche; e chi sono? Il concetto stesso di ‘grande maestro’ è in crisi, è un concetto euro-colto che oggi si adatta male alla frastagliata situazione che mette in gioco esperienze mature o inesperte, atteggiamenti competenti o banali, orientamenti forti o deboli, personalità capaci o vip da copertina, artisti di conclamato valore e star commerciali, tutto questo in una colossale miscela di funzioni (e di finzioni). Una grande ammucchiata dove tutto sembra disperdersi nell’effimero della massificazione. La regressione dell’ascolto, di cui s’è parlato fin da Adorno, è già avvenuta. All’espansione della ricezione artistica non ha corrisposto un approfondimento del senso forte dell’esperienza, spesso l’oggetto è un feticcio da somministrare in ascolto o in visione a masse del tutto impreparate che si pongono in modo superficiale e ludico. Ma l’arte non può adeguarsi al conformismo imperante perché così facendo perderebbe la sua capacità di incidere sul presente.
La sfida è proprio quella di trovare spazi di creatività all’interno di meccanismi codificati. L’arte ha il compito di aprire nuovi spazi mentali, creare visioni di mondi differenti e migliori, è devianza rispetto ai triti modelli di vita quotidiana. La bellezza non salverà il mondo ma certo crea spinte utopiche, verso la ricerca delle profondità dell’Essere, produce un’aspirazione all’armonia. Nell’Udienza agli artisti, del 23 giugno, Papa Francesco dice: “La bellezza ci fa sentire che la vita è orientata alla pienezza. Creare l’armonia delle differenze, non annientarle, non uniformarle, ma armonizzarle, allora capiamo cosa sia la bellezza”.
Assumere l’utopia significa avere lo sguardo lungo, uno sguardo che permette di andare al di là del proprio orticello, per poter abbracciare il senso generale, per comprendere la molteplicità, per approdare a una sorta di pensiero ecologico, che depura gli interessi personali per andare incontro a quelli collettivi, e per approdare anche a una sorta di geo-arte, di un’arte che più che storia è geografia, solidale alle culture del mondo e relazionata alle tematiche del presente.
Oggi vi è un’evidente tendenza alla semplificazione, nel tentativo di facilitare la lettura del mondo, di appianare le problematiche e banalizzare i concetti, nel nome di una leggerezza dell’essere che porta alla vaporizzazione dell’esistenza, basata sull’apparire, sul mostrarsi, su un vivere virtuale che è il contrario dei concetti di creatura e di individuo, non più appoggiati a entità, essenze e realtà ma nebulizzati, quindi, non in grado di formare una collettività reale, fondata su valori condivisi, tangibili proprio nel loro essere fondanti. L’impalpabilità dell’essere produce l’evanescenza delle società attuali, liquide secondo la nota definizione di Zygmunt Bauman.
In questa liquidità molti ricercano i vecchi valori, si aggrappano alle certezze del passato, vorrebbero chiudere, definire, delimitare. Nostalgici delle ideologie, bisognosi di essere rassicurati da punti fermi, da piccole verità quando ciò che li circonda sfugge da tutte le parti e meno male! Il conformismo generalizzato serpeggia implicitamente nelle menti dei cercatori dell’oggettività storica, delle definizioni e spiegazioni e mentre loro si arrovellano nel cercare chiarimenti l’arte è già da un’altra parte e meno male!
Dobbiamo farcene una ragione, l’arte è multipla. Come la società, come il mondo. L’operare dell’artista si svolge con modalità sempre differenti e l’opera è inserita in un vorticoso circuito ermeneutico che le permette di sfuggire a ogni interpretazione univoca.
Ci si deve posizionare non in un solo punto di osservazione, non basta trovare un buon punto prospettico da cui vedere l’evolversi del mondo (della musica); occorre trovare nuove angolazioni dalle quali vedere profilarsi qualcosa di nuovo, ma soprattutto bisogna trovare più posti di osservazione puntati in maniera precisa sullo stesso fenomeno che interessa studiare: è l’esperienza dell’Einsicht di Wittgenstein, la scoperta di un “terzo senso” che si forma dalla contemporaneità di più punti prospettici.
Come afferma anche Slavoj Žižek, in L’oggetto sublime dell’ideologia, un’opera è sempre coinvolta con i suoi commentari: l’interpretazione di un brano sta sullo stesso piano del testo stesso, quindi, l’interpretazione è inclusa nel corpus del testo, non esiste una scrittura pura. Ogni composizione è sempre inserita in un sistema decentrato di processi plurali, per cui ogni testo, inclusi quelli che interpretano quello di base, è segnato da una fondamentale ambiguità e sommerso dalle propagazioni del processo intertestuale. La ‘verità’ di un testo non è una sorta di surplus sfuggente, ma si forma attraverso una serie di incontri: è l’intreccio di interpretazioni differenti, perfino opposte e contraddittorie, che determina la verità del testo ossia è il suo essere osservato da più punti di vista.
Molte sono i punti interrogativi e le contraddizioni che si accavallano nel nostro tempo presente. Periodo difficile e drammatico, del resto è da Beethoven che l’arte porta il lutto, perché è con la coscienza della Romantik che s’è fatta carico delle sofferenze, esprimendo il cordoglio per quanto vi è di offeso e di umiliato nella vita (sociale) dell’uomo. Rispetto alla vecchia posizione adorniana della dialettica negativa, ci deve essere una risposta positiva nuova, una ridente forza utopica, perché, se è vero che l’u-topia parla di un posto che non c’è, è anche vero che quel posto potrebbe esserci, ed è lì, nella Terra dell’Uomo riconciliato con sé stesso e col proprio prossimo, che tutta l’umanità dovrebbe incamminarsi, manifestando la pienezza di vita.
Renzo Cresti, Coordinatore Comitato Centenario SIMC
Una risposta
Mi ha subito colpito il titolo della relazione, “Musica come pienezza di vita” che coglie un mio personale sentire come compositore e interprete. Renzo Cresti sviluppa questo tema con una serie di tracce e citazioni illuminanti. In apertura mi ha ricordato Italo Calvino con alcuni termini quali “leggerezza” e “molteplicità” , in più aggiunge “liquidità” ed altri come espressioni della società degli anni 2000: “società liquida” che porta ad una “creatività distribuita”, frazionata in settori. Scrive Renzo di fare attenzione all’”abuso del multimediale” ed anche che “l’arte è multipla”. Concludo queste mie citazioni – che però intendono sottolineare il percorso dell’articolata relazione di Renzo – con l’affermazione di sviluppare nell’arte musicale una “ridente forza utopica” . Penso che proprio quest’ultima bella frase sintetizzi la conquista verso una “pienezza di vita”.