Può una fiaccola illuminare la musica? – Requiem per Jan Palach e altri

Qual è il motivo per cui trascorriamo gran parte del nostro tempo con strumenti alla mano, studiando, provando, suonando in pubblico o nelle nostre case? Ci sarà un fine materialistico, un fine economico, un fine concreto?

Proverò a rispondere.

C’è una parte di noi, quella con cui entriamo in contatto nel momento in cui impugniamo i nostri strumenti e cominciamo a suonare mettendo l’anima in ciò che facciamo: la nostra essenza più profonda. Si tratta di quella parte che trascende la materia e ci lascia la consapevolezza di essere immersi in qualcosa di più grande, un sistema perfetto, l’energia universale che ci lega a tutto il resto del creato. Quando siamo nella musica non esiste solitudine, non esiste egocentrismo, tutto decade nella consapevolezza profonda di essere “al servizio” di qualcosa di più grande, di essere un mezzo attraverso cui l’arte può entrare in contatto con la piccolezza delle nostre umane identità ed illuminarle, rendendo così chiaro che non siamo che una delle infinite facce della stessa medaglia. Non esiste appagamento più grande del sentirci parte dell’immensa energia universale in cui siamo immersi: essere mediatori che danno voce alla magia che in potenza esiste già sulla carta di una partitura ancor prima che essa venga eseguita.

Nella società consumistica in cui siamo immersi, spesso ci dimentichiamo dell’infinito valore di tutto ciò, ed ecco che si viene a configurare un mondo in cui la musica ed i musicisti ricoprono un ruolo del tutto marginale e si ritrovano spesso isolati, dovendo impersonare la figura degli “eroi” che cercano di salvare la propria patria, che in questo caso é rappresentata dalla musica in ogni sua forma.

Da qui nasce la mia idea di proporre a voi l’ascolto e la recensione del “Requiem per Jan Palach e altri” di Giampaolo Coral.

Questa è un’opera orchestrale composta nel 1969 come gesto di solidarietà verso il giovane Palach, studente ceco che si immolò per protestare contro l’occupazione sovietica. Nel titolo Coral scrive “Per Palach e ALTRI”: questo nasconde la dedica a tutti coloro che hanno la forza di portare avanti un gesto individuale che può avere una forza significativa quanto mai sconfinata in molti campi, tra cui sicuramente anche quello artistico. Ciò si lega al concetto di anestetizzazione e stallo in cui viviamo oggi, sintomo di codardia che noi, in qualche maniera, ci proponiamo di abbattere.

Giampaolo Coral – Requiem a Jan Palach e altri (1969).

L’ascolto del brano ci fa apparire davanti agli occhi, fin dai primissimi suoni, l’immagine di un uomo solo, con una fiaccola tra le mani, che cerca di far luce su ciò che ha attorno, con la speranza di trovare davanti a sé più del deserto ombroso che si configura. La sua luce illumina le tenebre, ma sembra darci la visione di qualcosa di terrificante e che rispecchia, in un certo qual modo, la sua interiorità preoccupata e ansimante. Sembrano configurarsi sonoramente continui sbalzi d’umore, di pensieri, di paure che si trasformano da attimi di confusa frammentazione a picchi di massima tensione emotiva. Da questa frammentazione del pensiero musicale riusciamo quasi a percepire il battito irregolare del suo cuore, che prova a mettere luce sul percorso davanti e dietro di sé, ma si ritrova, ancora e definitivamente ad osservare la sua solitudine nel bel mezzo del nulla cosmico. I picchi di massima tensione armonica in cui la compagine orchestrale sembra esplodere per stratificazione tensiva ci danno invece l’idea del suo cuore che sembra scoppiare e saltare fuori dal petto, all’improvviso. Ecco che un momento di calma apparente sembra fare capolino, ma é pur sempre un sentore di tranquillità, dimostrata da chi, nonostante abbia dentro un mare in tempesta (che le linee armoniche sovrapposte creano in quanto a tensione) deve mostrarsi sicuro, in quanto deciso a perseguire i suoi ideali fino alla fine, spinto da qualcosa di più profondo. Seguono, al picco massimo, attimi di frammentarietà: ecco di nuovo i battiti irregolari del cuore dell’uomo solo, ed i suoi pensieri nel riconoscere che attorno a sé la compagine orchestrale sta configurando una sorta di specchio frantumato. Nonostante egli possa provare a mettere luce su ciò che c’è attorno, attraverso l’espressione della sua interiorità illuminata, essa non riesce ad apparire in quanto tale nella realtà circostante, ma passante attraverso il filtro della corruzione consumistico-materialistica che si afferma tutt’intorno. L’uomo non si ferma, non si limita nonostante tutto questo e continua a lottare: i suoni sottili come lamine, rappresentano le argute idee di chi vuole continuare ad andare controcorrente, nonostante ciò significhi camminare su un filo sottile nel bel mezzo del nulla. Si erge un tema solistico flautato che sembra essere la sicura narrazione di ciò che ha dentro, ma ecco lo scontro immediato con la realtà circostante: un’esplosione tensiva della compagine orchestrale.

La strada sembra sempre azzerarsi e l’uomo si ritrova a ripartire da zero, sapendo di avere attorno a sé sinistri, che spuntano da ogni dove.

La paura della consapevole solitudine sembra trovare una via di svolta nello spunto tematico di tre note, presentato dapprima dai fiati uno alla volta e poi dagli archi uniti: sembra esserci una speranza… allora c’è qualcuno che ascolta e che asseconda il processo per cui quell’uomo è disposto a dare la vita!

Un’esplosione tensiva ci porta ad un’idea tematica di ritrovata tenacia e speranza, rapida e serrata come coloro che portano avanti con forza un ideale. È l’unico momento del brano in cui si respira una certa serenità, che va però subito incontro ad ostacoli, inflessioni, rallentamenti, momenti di stasi. Dentro, continua a friggere quell’ideale di bellezza che si erge alto, rappresentato dal tappeto sonoro dei bassi su cui i vari strumenti intessono linee e fluttuazioni armoniche che ci trasportano in un’atmosfera di ritorno a quella solitudine consapevole che ci ha accompagnato fin dal principio del brano. L’uomo sembra trovarsi di nuovo solo, ma questa volta sicuro di aver lasciato un messaggio che farà da miccia nella mente di chi aveva ascoltato le sue parole e di coloro che, anche se solo per un attimo, avevano abbracciato le sue idee, camminandogli a fianco. Ecco che, ad un’ulteriore esplosione tensiva, segue un momento di consapevole distensione in cui dei soli iniziano a veicolare un messaggio già sentito, come il ritorno di quell’ideale, elaborato sotto il filtro della loro coscienza. Qualcosa sta cambiando e il sublime lo ritroviamo in un importante fattore: anche se la figura di chi aveva veicolato il messaggio non c’è più, esso rimarrà impresso per sempre, come un’impronta nel cemento, pronta ad essere notata dal primo che, passando, deciderà di non attraversare al buio, bensì di prendere tra le mani e riaccendere quella fiaccola.

Ludovica Del Bagno

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