La lacerazione – insanabile? – tra museo e società

Ne L’origine dell’opera d’arte, Martin Heidegger scrive che l’opera d’arte – non, quindi, l’oggetto – è in qualche modo orfana, poichè privata del luogo in cui è venuta alla luce. L’opera, più che essere esposta, in realtà, espone. Cosa espone l’opera d’arte? Il suo mondo o, come direbbe il filosofo, la sua verità. Verità che nei musei è già tramontata. Irreversibilmente.

Ma l’opera d’arte rischia di morire due volte, nei nostri musei. Ne L’opera darte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin sostiene che l’opera d’arte ha ormai perso la sua aura, quell’hic et nunc che da sempre ha contraddistinto l’esperienza artistica, quella sensazione unica che si prova dinanzi un’opera d’arte. Tutto ciò per via della capacità di riproduzione tecnica a cui è giunta la società moderna, la quale, “fabbricando” di continuo copie di opere, ha finito con il saturare il desiderio artistico delle masse. Basti osservare la rapidità con cui chi entra nei musei passa da un capolavoro all’altro, incoraggiando quel sempre più consolidato sguardo fotografico, “istantaneo” in senso stretto, con cui ogni parvenu tenta di acquietare la propria coscienza. Ricordiamo, inoltre, quel che nota Theodor W. Adorno in Filosofia della musica moderna a proposito dei “pezzi di Beethoven di cui”, scrive, “l’ometto della metropolitana fischietta i temi”.

Ma per non peccare di nostalgia o di austerità intellettuale, ricordiamo ciò che scrive Antonella Agnoli in La casa di tutti: riferendosi alle biblioteche – ma il discorso rimane valido per tutti gli ambienti culturali -, è scritto: “Il nostro lavoro è creare uno spazio empatico”. Cosa vuol dire spazio empatico? L’autrice lo chiarisce: “qualcosa che avvolge ed emoziona chi entra”. Il cambiamento, quindi, non parte solo da chi entra, ma anche dal luogo disposto ad accogliere. Ma qui bisognerebbe ragionare in assenza di amministratori ed economisti d’ogni sorta. Nelle prospettive di chi scrive bisognerebbe riprendere il sentimento dell’ars gratia artis: la guida all’ascolto di un concerto non si fa dieci minuti prima dell’inizio dello stesso, con un testo più o meno ben scritto, perché la pre-disposizione di un animo non matura così in fretta: essa parte, se parte, molto prima, trattandosi di una educazione, non di una misera informazione; si può rimanere folgorati da un quadro anche dopo molte ore – spesso dopo anni -, passate dinanzi ad esso: al diavolo gli orari da visita – spesso le ore notturne si rivelano le migliori per creare un contatto con l’opera -, i corridoi umani e la giustapposizione di opere una addosso all’altra; anche per leggere un libro ci vuole pre-disposizione, preparazione, altrimenti si finisce per conoscerne solo la trama. Quanto sostenuto viene sperimentato quotidianamente da coloro che, per esempio, studiano musica. La prima barriera che separa lo studente dall’opera è quello tecnico: non si possono suonare certi brani se non si ha una certa preparazione tecnica. Mutatis mutandis, non si può, e non lo si dovrebbe permettere, avvicinarsi ad un’opera d’arte se non si è pre-disposti, se non si è dedicato spassionatamente del tempo a sè stessi, al proprio mondo e al mondo dell’opera d’arte. Abbiamo lustrato con le conquiste politiche e sociali le basi dell’esperienza artistica, che niente ha a che vedere con il mondano e il quotidiano. “Se è arte non è per tutti, se è per tutti non è arte”, diceva Arnold Schönberg.

Giuseppe Lo Sasso

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