Che musica è quella che si scrive, si esegue, si ascolta oggi

La questione rimane la stessa.

Che musica è quella che si scrive, si esegue, si ascolta oggi.

E’ indubbio che l’attuale fase si caratterizza, da qualche anno, da una crisi di identità creativa, sempre più vistosa e in qualsiasi campo.

La musica maledettamente detta ‘colta’ è scomparsa, la musica di un tempo definita ‘classica’ replica se stessa, la cosiddetta ‘leggera’ è diventata tanto leggera da persistere nel tempo in un batter d’ali, il jazz ha smarrito, spero per poco, la sua forza antropologica, l’etnica non è più di moda, le stesse rivoluzioni giovanili, quelle nate dalle strade, si sono sempre più incluse in un modello la cui routine computerizzata ne appiattisce l’espressività istintiva.

L’attività musicale, dopo il Covid, come qualsiasi manifestazione artistica, è fortunatamente esplosa. Caratterizzata da una pervicace ripetizione del già noto.

Sopravvive per quella inesauribile voglia di soddisfare quell’intricato intreccio di emozioni e di identità culturale in cui riconoscersi, che da e che continuerà a dare. Attendendo, in alcuni, l’arrivo di nuovi orizzonti.

Le cause le conosciamo. A volte è stucchevole ripeterle.

Questa volta vorrei concentrarmi su una questione extra musicale: l’attuale momento storico.

E’ indubbio che stiamo consumando un periodo transitorio, come altri del resto, ma che questa volta ha una caratteristica specifica: è anestetizzato.

Al ciclico susseguirsi di fasi espansive con quelle di crisi, a volte devastanti, che caratterizza la storia dell’umanità, s’interpongono queste fasi transitorie il cui sviluppo non sempre risulta chiaro per la direzione che vogliono perseguire.

La fase espansiva, felice e propositiva in molti l’hanno conosciuta: al termine della devastante seconda guerra mondiale, in Europa, tutte le componenti della società hanno saputo reagire: dalla affermazione dei diritti al consolidamento delle democrazie, dallo sviluppo finanziario a quello economico. L’arte ha brillantemente proposto novità, provocazioni, cambiamenti di stile di vita, una idea di futuro più che ottimistica.

I riflessi di tale impulso sono ancora oggi più che evidenti. Ma inevitabilmente tali impulsi hanno ridotto la loro forza innovativa. Permane inerzialmente la sua influenza che in qualche modo ci consente di permanere in una fase sostanzialmente positiva.

Positiva ma anche transitoria in cui si sta sempre più riducendo la capacità di avviare una nuova ed energica fase, un pensiero magari dirompente, capace di nuove progettualità, capace di nuove visioni prospettiche.

La storia ci dice, purtroppo, che le innovazioni, ancor più quelle radicali, del tutto inattese, la cui forza dirompente avvia processi inimmaginati, la cui incidenza rivoluzionaria sull’assetto antropologico spesso non è inizialmente compresa, avvengono solo dopo profonde crisi politiche, economiche, sociali.

Esempi ce ne sono in abbondanza.

In Europa al crollo di un sistema iper centralizzato quale era l’impero romano ne seguì uno del tutto decentrato quale fu la formazione dei comuni. Un processo che avviò per gli storici la modernità, accompagnata guarda caso fra l’altro da una rivoluzione concettuale dell’arte.

Per molti il Rinascimento è la risposta alla peste del 1348 che sembra aver sterminato metà della popolazione europea avviando un processo di abbandono delle terre che costrinse, per sopravvivere, ad una sua forte ristrutturazione, capace di riavviare il commercio nel continente. Soldi nuovi e tanti che finanziarono il nuovo modo di pensare l’arte. Anche in questo caso è facile distinguere le teorie e le realizzazioni artistiche prima e dopo il 1348.

La domanda che ci si pone, e che è anche una inquietante riflessione, si basa su un concetto brutale: dobbiamo attendere anche noi una prossima catastrofe per poter immaginare un nuovo felice periodo di creatività artistica?

Dunque dobbiamo accettare che non c’è molto da fare. C’è solo da attendere che il peggio arrivi.

Ovvio, nessuno è disposto a barattare nuove idee artistiche con una inumana crisi, tanto più dopo aver raggiunto livelli medi di benessere che l’umanità non aveva mai conosciuto.

La consapevolezza, acquisita nel tempo, della irrinunciabilità dei valori impliciti della dignità della vita ci porta a respingere, giustamente, qualsiasi processo che possa far retrocedere la storia. Per impedire ciò si rende necessario promuovere un comportamento attenzionato per garantire il mantenimento dell’attuale status e perché questo, semmai, migliori nel tempo. 

Il processo di conservazione e di accudimento caratterizza questa fase transitoria che, purtroppo, al contempo, non ha la forza di rilanciare più in alto le aspettative comunque presenti, trovando, per esse, nuove collocazioni e prospettive.

Insomma in questa fase delicatissima si tende più a galleggiare che ad osare. Il che è ordinario in una fase di attesa.

Se torniamo a noi e alla nostra piacevole voglia di far musica, tanta anestesia storica produce: individualismo, prodotti ‘copia e incolla’, carenza di coraggio, difficoltà di avviare conversazioni riflessive, timori nell’osare, difficoltà nella capacità di ascolto, illusioni di essere capaci ma non compresi.

‘Mi è dolce naufragar in questo mare’.

Questa è l’illusione dello stato di cose. Un’illusione piacevolissima che consente di lasciarsi alle spalle l’impegnativa e intrigata profondità dei nostri perché, per godersi il fluido flusso degli eventi, così come sono, per scoprire, magari, del tutto inattese nuove verità.

Ma purtroppo questa illusione si è trasformata in un inganno del nostro presente.

Lo viviamo, il presente, come unico elemento temporale possibile.

Soluzione? Soluzioni?

A cause complesse sarebbe un altro inganno trovare risposte semplici.

Eppure c’è da provarci.

C’è, a mio avviso, da tessere. Tessere un filo, oggi, intrigato e in parte spezzato. Con cura, caparbietà, delicatamente, con modestia.

C’è da ricollegare il passato con tutte le sue soprastrutture e deviazioni alla contemporanea complessità del presente. Il tutto all’interno di una prospettiva, ovviamente, facente parte di un progetto. C’è da definire le basi di principi e metodi che includano tale lavoro.

Con pazienza infinita c’è da trovare, se si è fortunati e/o bravi, il bandolo della matassa per avviarsi nella direzione da prendere. E non averne paura.

Giovanni Claudio Traversi

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