Ho già avuto occasione più volte in questi mesi di notare come il Centenario della Società Italiana Musica Contemporanea fosse davvero una sfida difficile per tutti noi.
Casella anche prima del 1923 pensava a una Società che si occupasse di promuovere e diffondere la musica italiana, e fin qui nessun problema. Ma il suo tempo, e quello dei musicisti della Generazione dell’80 è talmente lontano dal nostro, sotto il profilo culturale, politico e artistico, che è pressoché impossibile un qualsiasi confronto. A meno che non lo si riconduca quasi esclusivamente all’entusiasmo mai decaduto di chi vuol continuare a scrivere musica nuova. Tuttavia, come forse direbbe Verdi, tornare a considerare l’antico potrebbe servire a capire meglio il presente e un futuro che tutti auspichiamo di progresso.
Sbaglia chi, con riferimento all’epoca, crede a una interpretazione puramente identitaria della musica “italiana” durante il ventennio e non vede l’interfaccia di un più ampio intento di promuovere nel contempo anche la musica “straniera” in Italia, in particolare quella dei Paesi che si erano distinti negli Anni precedenti la Prima Guerra mondiale, tra tutti Francia e Germania. Era tra queste due culture che si giocava in fondo una competizione che divideva anche i nostri musicisti nelle loro preferenze, competizione ovviamente destinata a proiettarsi oltre gli stretti confini dell’evoluzione dei linguaggi artistici. Casella portava in Italia, nelle Rassegne di Venezia, Roma, Siena, Firenze e, tramite il Sindacato Musicisti, un po’ in tutte le Regioni, opere di Stravinski, Schönberg, Debussy e Ravel. Accanto ovviamente a quelle dei nostri compositori che cercavano vie nuove e anche di rimettersi al passo emancipandosi rispetto al solo genere coltivato nell’800, il melodramma. La Società Italiana di Musica Contemporanea, già coi tentativi del 1917, e nata infine come Corporazione delle Nuove Musiche, sarà dunque, per sovrapposizione dell’acronimo, anche la Società Internazionale di Musica Contemporanea.
E’ quasi ovvio che gli scopi di Casella e degli altri compositori del momento (Malipiero, Respighi, Pizzetti, Dallapiccola, Petrassi, ecc.) si sovrapponessero, almeno in parte, anche alle esigenze del nuovo regime che si affermava e che coltivava intenti propagandistici per riportare il Paese al rango di protagonista in tutti gli ambiti, anche in quelli culturali e artistici riconosciuti e distinti dalle espressioni più popolari. Del resto non ci sarà in Italia quell’accanimento contro “l’arte degenerata” che vedrà protagonisti più tardi i regimi di Germania e URSS.
Dopo il ventennio, il dopoguerra disegna scenari nuovi e l’esigenza in un certo senso di azzerare tutto per ricostruire un nuovo umanesimo e nuovi linguaggi artistici aperti alla ricerca tecnologica, al bisogno di sostituire il limbo di un generico approdo atonale e anarchico di difficile penetrazione teorica, a cui in diversi avevano cercato di porre rimedio. In primis proprio lo strutturalismo che segue la dodecafonia di Schönberg con nuove possibilità linguistiche e semantiche tutte da costruire.
Ma poi la nuova musica parve sterilizzarsi in vitro e chiudersi in cenacoli elitari. Troppo difficile seguirla nella accelerazione dei suoi sviluppi. La società e la politica sul finire del secolo si allontanano da essa, e con loro anche la committenza. La committenza è essenziale, interessata a produrre “oggetti” d’arte, è sempre esistita in aree storiche e geografiche precise legandosi anche al potere politico, religioso ed economico. Oggi alla sua mancanza fa solidale contrappeso la estraneità o comunque la indisponibilità di una società in ascolto. In verità l’ascolto è sempre più raramente proposto come fosse ridotto il suo interesse sociale, fino a riconoscerne a mala pena un semplice “diritto di tribuna”. Ridotto è quello per la musica da noi coltivata e definita come “colta”. E così quelle che una volta erano genericamente “l’altra musica”, con tutti i loro infiniti rivoli di leggerezza e intrattenimento e con tutti i generi e per tutti i gusti popolari, diventano le sole musiche riconosciute oggi dal mercato dei suoni. E questo quadro che ci ritroviamo nel Nuovo Millennio è portatore di ulteriori complicanze, che forse interessano solo noi che proveniamo da una certa tradizione accademica e classica; ma, con questa realtà, si deve pure fare i conti oggi, con o senza affanni.
Dunque alla vigilia del Centenario ci si interroga su vari aspetti che riguardano una molteplicità di argomenti. Quali musiche per la società contemporanea ma anche, rovesciando la prospettiva, quale SIMC per le musiche d’oggi. Da ciò deriva il ruolo dei compositori, la committenza, le libertà di stili e linguaggi, l’apprendimento e l’insegnamento, la catena produttiva, il ruolo degli Enti, quello degli strumentisti, e altro ancora. Una identità persa nel fluire libero della creatività contemporanea, vien qui detto. E i temi e problemi con la composizione, con la divulgazione, con la produzione, con la narrazione artistica, con la storia sono temi davvero grossi da affrontare.
Il primo, forse il più importante, è proprio quello dei linguaggi musicali. Saltato il tappo delle differenziazioni tra i generi musicali e con l’apertura alle contaminazioni degli stessi che sanno molto di globalizzazione nel settore, la situazione diviene contraddittoria e quasi drammatica in quanto alimentata da una tecnologia dirompente e persino indomita che richiede professionalità specifiche e competenze tecniche qualificate, specialisti e non tuttologi, e strumentazioni adeguate, impensabili ai tempi dell’artigianato compositivo dei nostri maestri del ‘900. E’ evidente che da un secolo non è stata assorbita la polverizzazione seguita alla atomica che si era abbattuta sul sistema tonale. Oggi, messo il cuore in pace di una ricerca che avrebbe dovuto portare a qualche altro sistema linguistico, a una nuova lingua comprensibile a tutte le latitudini delle aspettative d’ascolto; la babele delle grammatiche musicali ha portato all’individualismo più sfrenato, che spesso diviene solipsismo. Parliamo con noi stessi, senza più comunicare. Come coi social.
“Sarebbe troppo facile, scrive un musicista della mia generazione, lamentare qui il tramonto di una intera Civiltà musicale, dei suoi strumenti artigianali, delle sue conoscenze. E’ necessario prendere atto che siamo definitivamente transitati in un nuovo Secolo e in una nuova Era della cultura musicale”. Il che per noi non è affatto semplice perché nessuno può saltare la propria ombra fatta di esperienze e di anni di impegno; nessuno può “riciclare” se stesso ai ritmi della tecnologia imperante. Per vincere le ossessioni, occorre tolleranza su alcuni punti: non dobbiamo perdere il controllo su chi siamo, cosa sappiamo e cosa non sappiamo fare, restando noi stessi con la nostra personale esperienza. E dobbiamo avere più aspettative sui giovani e sulla loro migliore disponibilità al nuovo anche quando ci appaiono più ingenui e meno preparati. Forse lo sono meno preparati se li guardiamo con la nostra logica, ma sono loro che possono essere meno accademici per creare nuove logiche. Se sarà o non sarà progresso, a noi non è dato di sapere, ma occorre avere fiducia. Del resto come potrebbe essere altrimenti?
In una inconsapevole spregiudicatezza tutte le carte si mescolano confusamente e ognuno sperimenta ciò che vuole anche liberandosi dal peso della storia della musica che talvolta può risultare anche ingombrante. C’è chi riscopre brandelli di tonalità per ritorni a un modo che in fondo il più delle volte non si conosce a sufficienza per praticarlo, e allora ci si avvia verso banalizzazioni di disarmanti motivetti che denotano non la volontà di essere semplici ma semplicemente le lacune di conoscenze anche dei più elementari strumenti artigianali. E c’è chi continua imperterrito a fare complicati calcoli, a ricercare ogni sorta di effetti sonori o segni notazionali per poter ancora una volta “dimostrare” la propria opera come fosse un’equazione, o come si pretendeva ai tempi delle Avanguardie per poterne avallare un giudizio positivo. Un certo manierismo accademico rischia di portarci al dunque, che cioè il Nuovo sia il Vecchio, comunque lo si legga. In questa libertà estetica indifferenziata e postmoderna, si può anche non saper leggere un corale di Bach, ma può occorrere saper tutto su ogni aggiornamento del software in uso, si può inventare una situazione di atmosfere sonore degne di autori che discendono dalla contemporanea colta, senza peraltro saper nulla di Nono, di Stockausen o di Grisey, e forse anche poco o niente di Schönberg e Stravinskij.
In questa situazione caotica ma anche propensa alla vivacità dell’entusiasmo, che potrebbe dire la scuola? Certo: aiutare lo studente di composizione a trovare il suo futuro professionale. Ma, poi, in quali professioni? Che cosa ci prefigura il mercato del lavoro per i giovani compositori oltre alla surroga dei propri insegnanti che risulta essere sempre più squilibrata? E certo può valutare il lavoro degli studenti ma con problemi ben maggiori perché non si tratta più di correggere una composizione in stile antico con gli strumenti della armonia, del contrappunto, delle forme o delle tecniche di base degli strumenti. L’insegnamento si effettuava sullo studio e l’imitazione dei classici, certo con una trattatistica che era anche un fardello spesso teorico e datato. Si innovò qualcosa dagli Anni ‘70, pensando forse che si potesse anche tornare alla bottega del Maestro artigiano. Si finì per esasperare il principio che bisognasse scrivere come il Maestro nell’ambito delle grammatiche che lui stesso inventava per i suoi pezzi.
Eppure oggi la scuola, il Conservatorio in particolare, può avere ancora un grande rilievo. Senza più certezze in nulla, l’insegnante dovrebbe fornire gli indispensabili strumenti di conoscenza di base delle leggi della musica e delle tecniche della composizione, e poi offrirsi e confrontarsi con i propri allievi, cercando di coglierne le personalità, aiutandoli a trovare la loro strada autonoma, coltivandone attitudini e gusti. Può fare tutto questo un Insegnante di oggi? Forse no, per oggettivi limiti che lui stesso avrà sicuramente. Ma forse può fare anche di più, in un confronto leale, affrontato con umiltà che talvolta è anche sapienza. E se è lui che non conosce quasi nulla degli stili tecno poco importa. Vorrà dire che sarà lui a dover imparare qualcosa dai suoi allievi.
Questo non è il punto di debolezza.
Segno di debolezza rimane invece e senza alibi la inadeguatezza del sistema Italia.
Oggi lo si avverte di più, perché per tanto tempo il Paese è stato un esempio di civiltà musicale da rincorrere e da coltivare. Oggi è ancor più desolante vedere le sorti di abbandono della Cultura in tutti i settori in cui può esercitarsi oltre che nell’arte dei suoni.
“ Peggio di noi solo la Romania, dice un altro amico. Lo si può personalmente riscontrare su una spiaggia. Tedeschi, francesi, greci, spagnoli leggono. Gli italiani no, o pochissimi. O in una metropolitana. A Parigi molti leggono. A Roma o a Milano quasi nessuno. I concerti Proms di Londra sono affollatissimi e in ogni concerto c’è almeno un brano fresco d’inchiostro o di computer. Applauditissimo come se fosse Brahms.”
Dunque, il problema non è solo dove andrà a finire la musica contemporanea sparita dai nostri orizzonti. Per la SIMC c’è dunque ancora molto da fare nei prossimi Cento Anni.
M° Andrea Talmelli, presidente SIMC
Una risposta
Sugli aspetti che il Presidente accenna nel suo testo è stato discusso a lungo durante i tre giorni organizzati dall’Accademia. Sono problematiche importanti. Nelle sale dei Palazzi di Pietragalla e di Acerenza e in quella del Convento di Pietrapertosa il pubblico era ristretto, per questo è importante che i contributi che verranno pubblicati sulle pagine web dell’Accademia siano diffusi in maniera capillare e creino un dibattito. Sarebbe bello anche poterli raccogliere in un libro e nel futuro dar seguito ad approfondimenti. Grazie a tutti per l’impegno e la sentita partecipazione.