SUL COMPORRE LA REALTÀ. UNA PROSPETTIVA DI IDENTITÀ SOCIALE
Prima di discutere su un’identità “persa” sarebbe doveroso definire cosa significhi per noi “identità”. Consultando l’etimologia della parola vien fuori che per «identità» si intende «lo stesso», il ricono-scersi in qualcosa. Per parlare di identità quindi, dobbiamo comprendere il ruolo attuale del compo-sitore all’interno dell’ambiente sociale in cui si trova. Tuttavia l’intervento che oggi propongo non sarà solo un’astratta disquisizione di sociologia, ma cercherò di offrire il personale punto di vista di un compositore che affronta un percorso strumentale. Mettendosi dal punto di vista dell’interprete si ha una specie di rivelazione e tanti dubbi trovano, in parte, delle risposte.
«Solitamente le persone che interagiscono si preoccupano non solo di fornire e raccogliere informa-zioni, ma anche dell’immagine di sé che evocano negli altri; il desiderio di vedere confermate la pro-pria identità e la stima di sé costituisce una delle motivazioni più comuni negli incontri sociali della vita quotidiana. – E ancora – Si potrebbe allora ipotizzare l’esistenza di una competenza comunicativa di base, richiesta nelle interazioni della vita quotidiana di tutti gli individui, su cui si innestano alcune abilità comunicative più tipicamente professionali, legate cioè al ruolo effettivamente svolto nella situazione professionale: sull’integrazione di tali dimensioni l’individuo costruisce una peculiare iden-tità professionale e se ne appropria». Condivido quello la Treccani riporta alla voce «comunicazione». Senza comunicazione non ci può essere una vera e propria identità. Prendiamo ad esempio il mondo dell’Opera italiana. Il melodramma è stato, forse da sempre, per musicisti e letterati il mezzo migliore per comunicare con il vasto pubblico. Il canto gode del potere di smuovere facilmente l’emotività, la pièce diventa un mezzo divulgativo e il tutto si concentra in un solo ed unico obiettivo che è quello della sensibilizzazione dell’individuo, facendolo sentire parte di un tutto che si riconosce in quello stesso ambito culturale. La somma di questi elementi ha fatto sì che noi cittadini ci riconoscessimo in un’identità, possa essa essere nazionale, spirituale o culturale. Quando il Teatro da luogo sociale diviene borghese, si avverte una eco che arriva fino a giorni nostri: non è più una fucina creativa, un continuo pullulare di Prime bensì il luogo delle rappresentazioni «di Stato» per dirla alla Carmelo Bene. Le Prime assolute e commissioni sono affidate solo ai grossi teatri che possono permetterselo economicamente e lo spazio per la sperimentazione e le nuove proposte è una sgomitata e spesso non remunerativo. Non dobbiamo nascondere che tutto ciò fa perdere l’interesse anche da parte degli stessi musicisti. Se un genere si cristallizza e perde la sua duttilità rischia inevitabilmente di atrofiz-zarsi. Questo fenomeno si può facilmente dimostrare con la chiusura dei cinema in tutta Italia. Il concerto in forma recital, se non lo si ripensa, a breve sarà un solo un mero ‘atto museale’ – mi scuso per il lieve ossimoro-, un retaggio ottocentesco del ‘concerto di bravura’. In tutti questi generi il confine tra «cultura» e «spettacolo» è davvero labile. Il ruolo che gioca il compositore contemporaneo è di fondamentale importanza, anzi ne è la chiave. A questo punto pare che l’identità del compositore si affermi solo quando ha un ruolo attivo nella società con la quale ha la possibilità di relazionarsi e proporsi secondo la propria indole. Per costituire una solida predisposizione bisognerebbe partire dagli stessi interpreti, è essenziale che la divulgazione di questo repertorio dovrebbe avvenire fin dai primi anni del percorso formativo del musicista ma deve esserne parte integrante, non appendice. Se si confrontano, ad esempio, i piani di studio vigenti di secondo livello di pianoforte di tutti i conser-vatori di Puglia e si mettono in rapporto le ore previste per lo studio della prassi esecutiva della musica contemporanea con le ore totali, emergono delle percentuali poco rassicuranti.
Conservatorio “Tito Schipa” di LECCE: 24 ore (solo nell’indirizzo concertistico), 7%
Conservatorio “Giovanni Paisiello” di TARANTO: NON PRESENTE
Conservatorio “Nino Rota” di MONOPOLI: NON PRESENTE
Conservatorio “Niccolò Piccinni” di BARI: 15 ore, <4%
Conservatorio “Umberto Giordano” di FOGGIA: NON PRESENTE
Si può concludere con molta facilità che la media delle ore totali destinate al repertorio contempora-neo rappresentano <1% delle ore totali di tutti i piani di studio dei Conservatori presenti in Puglia. Se volessimo invece ampliare l’analisi proiettandola considerando tutto il quinquennio di studi, il valore in percentuale sarebbe davvero irrisorio. Non occupandoci noi Soci S.I.M.C. di statistica, ri-conosco che potrebbero esserci dati non accuratamente esatti. Questo perché le ore totali dei piani studio variano sensibilmente per ogni studente. Ma anche nel caso in cui questi dati disponibili sui rispettivi siti non fossero aggiornati, conveniamo sul fatto che la proiezione non cambierebbe così drasticamente. L’indagine potrebbe continuare consultando i Conservatori limitrofi ma, se dai mede-simi apprendiamo che la musica di Johann Brahms viene catalogata come “musica moderna”, meglio non infierire. L’Istituzione pone così lo studio della musica contemporanea sempre in maniera sfavo-revole per lo studente che, se non ha fortuna di trovare un docente propositivo o una predisposizione personale, difficilmente avrà modo di relazionarsi con questa musica. Anche aprendo un corso dedi-cato – si apprezza l’audacia – come si può pensare di maturare tecnicamente e musicalmente uno Studio di Stockhausen o una Sonata di Boulez in sole quindici ore, mentre un programma di prassi esecutiva si articola in tutto l’Anno Accademico? Questo sistema obbliga de facto di optare per quel programma ‘semplicistico’, ‘neo-romantico’, beceramente minimale e totalmente decontestualizzato nella sua astrazione dando allo studente una percezione distorta e che peggio, dà adito a chi di Con-temporanea non è esperto o peggio ancora, per ignoranza, la ripudia come estetica. Si noti come queste ultime considerazioni si fermino solo all’espetto didattico senza prendere in considerazione concorsi e palinsesti concertistici che sono inevitabilmente frutto del processo formativo che genera i nuovi interpreti e il nuovo pubblico di ascoltatori. Con queste premesse, come può il compositore di oggi pensare di conservare o delineare un profilo identitario?
Potrebbe essere troppo pretenzioso per un giovane compositore che scorge timidamente dalla finestra della realtà proporre una possibile soluzione ad un problema così massificato. Quello di cui sono sicuro è che è fondamentale avere a dare fiducia ai colleghi, lavorare a stretto contatto con la nuova generazione di Docenti che sono molto preparati e entrare nelle logiche che la Contemporanea diventa Repertorio nel momento in cui viene considerata tale, non c’è da convincere di una nessuna teiera di Russell. Sono consapevole che la maturazione è lenta prima che la produzione diventi pronta per essere considerata Accademica, ma il bello della ricerca musicale è quello essere labirintica e sempre in divenire. Concorsi di composizione all’interno del Conservatorio risolverebbero questi problemi, perché indire solo audizioni per le produzioni concertistiche destinate agli interpreti? Le esecuzioni di pezzi per grandi ensemble sono spesso una utopia per i Conservatorio Italiani, basterebbe prevedere laboratori impostati come corsi a scelta, se non obbligatori, nei quali si possa riscoprire l’esperienza dell’atelier. Sono opportunità di crescita da entrambi i lati. Solo lavorando in questa direzione con l’Istruzione, col tempo si possono raggiungere i risultati che tutti ci auspichiamo.
Andrea Siano, pianista e compositore

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