Società liquida: cosa aspettarsi. Nella perdurante, insistente nonché personalissima riflessione che riguarda l’attuale stato delle cose, riscontro che emerge nel dibattito corrente la constatazione che ammette l’idea della ineluttabilità di dover convivere in una società definita ‘liquida’.
Questo tema ha due possibili sviluppi: una benaugurante libertà di espressioni o una malaugurante povertà di idee e di progettualità.
Della società ‘liquida’ o ‘fluida’ che sia se ne parla da tempo.
Zygmunt Bauman è una delle voci più conosciute nell’ambito del dibattito sulla contemporaneità.
Nato a Poznam, in Polonia, il 19 novembre del 1925 è stato un attento indagatore della società occidentale, della sua struttura e dei suoi cambiamenti.
Occupandosi di modernità e di totalitarismi e del passaggio dalla cultura moderna a quella postmoderna ha analizzato il ‘caos’ in cui siamo immersi e il conseguente disorientamento che proviamo e ha formulato il concetto di modernità liquida emersa con la fine delle grandi narrazioni del passato, lo sgretolamento delle ideologie politiche e religiose, che impone, in un certo senso, un presente senza nome, privo di certezze e di radici solide.
Per chi intendesse approfondire, nel caso, rimando ai suoi saggi.
Altri si sono aggiunti e sempre per chi vuole entrare nel merito dei vari aspetti della questione, questi sono facilmente reperibili e ad essi rinvio la lettura.
Anch’io, dapprima, ho trovato molto stimolante l’idea di vivere in una fase della storia che per quanto caotica possa essere, è capace di offrire possibilità non solo diverse ma a volte inattese, propedeutiche di chissà quali prospettive.
A questo punto sento la necessità di aprire una breve parentesi.
Un altro termine è stato usato e abusato in questa ‘Babele’ di possibilità: contaminazione. Dove non si capisce se i singoli linguaggi interagiscano tra loro per produrne uno diverso e nuovo o più semplicemente permangono all’interno di un contesto, dato o voluto, ignorandosi come un peach word, si ricco nell’apparenza, ma fragile nella possibilità di disgregazione.
Contaminazione: altro elemento caratteristico del periodo, un altro aspetto della ambiguità dei nostri tempi.
Ma torniamo al tema principale.
All’iniziale mia favorevole predisposizione a tanta ‘democrazia’ espressiva, è sopraggiunto un dubbio che si è trasformato in un’arrogante certezza.
La società ‘liquida’ ha generato una fondamentale debolezza della creatività, specificatamente di quella artistica.
Potremmo per questo capovolgere la consecutio temporum: la costante fragilità del pensiero ha generato la società ‘liquida’.
Ma questo importa più ai sociologi e agli storici, per ora ci limitiamo a dire che il risultato, qualsiasi sia stata la reciproca influenza dei fatti, è lo stesso.
L’attuale situazione, come già scritto, ha anestetizzato il processo critico, ha dissolto qualsiasi pensiero che avesse una identità riconoscibile.
A molti piace così. E come dargli torto ricordando le prolungate fasi storiche dominate dalle dittature del ‘pensiero unico’, che hanno imposto, anche con la violenza, valori politici, religiosi, sociali, economici, etici, schiacciando qualsiasi immaginazione alternativa. (‘pensieri unici’ ancora presenti in gran parte del mondo, per altro)
E fin qui non si può che condividere tale atteggiamento, per quanto rimane una incompletezza critica che spero di essere in grado di chiarire.
Di periodi di transizione è piena la storia dell’umanità. Sono fasi apparentemente ‘insipide’ dove parrebbe che il pensiero soggiorni in una specie di limbo. In realtà, come sappiamo, è in queste fasi che si generano embrionalmente nuove prospettive. Questo perché si annidano nuove idee (per nuove intendo inedite, originali), talmente forti da irrompere e costringere la storia ad assumere nuove direzioni.
Una fase che ebbe anche caratteristiche di transitorietà fu, fra le altre, quelle che si ebbe a partire dalla seconda metà del XIX secolo per sopraggiungere a ridosso dello scoppio della prima guerra mondiale.
Ricordo con estrema sintesi alcuni fatti: i moti popolari del 1848, Marx poi Freud poi Einstein e infine tutto il resto che sappiamo e che è inutile ripercorrere ora.
Diversamente, mi piace l’idea di soffermarmi su ciò che successe nell’arte, specificatamente quella figurativa. I cosiddetti impressionisti decisero di fare una doppia rivoluzione: non essere più degli ‘impiegati’ di clerici, di aristocratici e di arricchiti borghesi che richiedevano all’artista di esaltare le doti magnificenti che ritenevano di avere, decidendo di vivere vendendo i loro quadri, sempre che vi fossero riusciti, pur di essere liberi. Liberi di ritrarre ciò che ritenevano importante per loro: paesaggi urbani e campestri, contadini, minatori, ballerine, prostitute, insomma la vita che scorreva al di fuori delle dimore signorili, abbandonando i rinnovati ideali classici. E tutto questo stravolgendo, se non bastasse, la tecnica pittorica fin lì utilizzata.
Rivoluzione che condiziona ancora oggi la vita degli artisti, soprattutto di quelli che non si vendono.
La storia dell’arte la conosciamo. Di lì a qualche decennio esplode una straordinaria stagione artistica che potremmo definire ‘liquida’, anzi ‘iperliquida’: cubisti, costruttivisti, espressionisti, simbolisti, fauvisti, dadaisti, futuristi, astrattisti e altro ancora.
Non solo.
Gli stessi artisti, pur condividendo un percorso comune, si differenziano e passano da una esperienza formale ad un’altra oppure, pur rimanendo all’interno di una procedura data, sviluppano modelli concettuali diversi. Esempio: Kandinsky, Mondrian, Klee, Magritte, Dalì, Pollock e ancora …Tutti astrattisti, tutti diversi.
Ah!… che bello…questa è, per davvero, una bella società ‘liquida’.
E’ bella, perché è l’esaltazione delle diversità, la negazione del ‘pensiero unico’ ed è stata possibile dalla moltitudine di idee ‘forti’, dalla chiarezza delle rispettive identità.
E’ così anche oggi?
Non ho dubbi: no.
Già detto in altre occasioni, mi ripeto seppur brevemente, riferendomi in particolar modo al mondo della musica colta o incolta che sia.
Sappiamo solo faticosamente copiare noi stessi e/o ciò che è noto. Temiamo il nuovo, nel senso che non vogliamo rischiare. Non sappiamo neanche più parlarci, ci basta un ‘mi piace’ per ritenere di aver espresso compiutamente un pensiero. Rimoviamo la possibilità di promuovere progetti che definiscano una ipotesi definita del futuro.
Siamo, come già detto, anestetizzati. Ci basta poco e non chiediamo di più.
La storia ci sovrasta, il fluire di essa è uno tsunami al quale assistiamo impacciati nella speranza di poter dolcemente naufragare da qualche parte.
Attendiamo gli eventi nel caso questi si manifestino.
I multiformi ed infiniti pensieri si dissolvono data la loro debolezza di un presente rapido e sfuggente.
In conclusione, e forse questo già si era capito, a me non piace questa società liquida fatta di pochezza. Temo che possa essere una ‘nursery’ preparatoria ad un ritorno ad un qualche nuovo infausto ‘pensiero unico’.
Siamo obbligati a tale passività o possiamo se volessimo tentare di opporsi a tutto ciò?
E’ per questo che credo che si deve assumere la consapevolezza dei fatti e decidere da che parte stare
Giovanni Claudio Traversi, compositore